Sulla sindrome populista, di Giacomo Marramao
Illustrazione
Carla Lucena
La delegittimazione è, senza dubbio, una costante nei conflitti politici: basti pensare agli “insulti” di Machiavelli. Ma proprio per questo rischia di essere, come il conflitto senza sentenza, un contenitore vuoto. Solo le connessioni con contesti e contenuti specifici possono produrre effetti di conoscenza. Nel nostro presente, il conflitto politico appare impregnato di elementi di ordine etico, religioso, antropologico: elementi divenuti non accessori, costitutivi di logiche identitarie che hanno sostituito i quadri ideologici conosciuti (e vissuti) negli ultimi due anni. secoli di modernità. Secoli lunghi: anche il Novecento non è stato un secolo breve, bensì, secondo la definizione di Giovanni Arrighi, il “Novecento lungo”.
Tra il XX e il XXI secolo, stiamo assistendo al fallimento dei due principali modelli di integrazione nella cittadinanza che abbiamo teorizzato e praticato durante la modernità: il modello repubblicano universalista-assimilazionista e il modello fortemente differenzialista-multiculturalista, o “mosaico” – per usare la metafora di Seyla Benhabib –. Ironie della storia: il "modello Repubblica" e il "modello londinese" producono le stesse forme di conflitti identitari, caratterizzati dal passaggio dalla logica del calcolo razionale degli interessi alla logica dell'appartenenza (o, se si adotta il lessico di Alessandro Pizzorno, di “conversione”).
A complicare il quadro, il mondo globalizzato si trova in una sorta di "interregno" tra il non più vecchio ordine degli Stati-nazione sovrani e il non ancora ordine post-nazionale che, dopo aver appena abbozzato, il ripiegamento in stessa sembra erigere confini anacronistici e coagularsi in una geopolitica e una geoeconomia di grandi spazi dominati dagli Stati continentali: dagli Stati Uniti alla Cina, dall'India alla Russia e al Brasile. In questo interregno, come in tutti gli interregni, si intravedono già mostruosi ibridi che potrebbero segnare la fine di questo corpus di conoscenze e pratiche alle quali per duemilacinquecento anni abbiamo dato il nome di politica.
"Esiste una versione più sofisticata del populismo, anche se poco considerata dalla scienza politica 'mainstream'"
Uno di questi ibridi è rappresentato da questa commistione di "antipolitica" (termine controverso e fuorviante usato per designare i movimenti anti-establishment) e la retorica iperdemocratica con cui caratterizza la duplice natura del Popolo nei movimenti populisti. La città si presenta, da un lato, come entità sostanziale, omogenea e fattore identitario; dall'altro, come “i virtuosi contro i loro rappresentanti corrotti”, la cui sovranità può essere salvata solo da un leader capace di incarnare la loro volontà.
Esiste, tuttavia, una versione più sofisticata del populismo nella sua teoria, sebbene poco considerata dalla scienza politica corrente dominante. Si oppone nettamente alla tendenza "antipolitica" e delegittimante e scommette sul "momento populista" come unica via possibile per un "ritorno della politica" in vista di una democrazia radicale, anche se non "immediata", basata sulla antagonistico ma allo stesso tempo pluralista e antiautoritario. Senza essere all'altezza di questa proposta teoricamente forte, trovare una soluzione alla sindrome populista rimarrà inutile.
Il doppio regime della memoria
Eppure, c'è ancora molto da discutere, rivedere e rispondere. In primo luogo, la questione della doppia anima della democrazia moderna:
a) l'anima "madisoniana", con il suo principio di limitazione del potere, compreso il potere del "popolo sovrano"
b) l'anima “populista”, con il suo principio di partecipazione.
Da questa doppiezza costitutiva scaturisce la “perenne tensione insita nel costituzionalismo occidentale tra limite giuridico e responsabilità politica” e, con essa, il rischio di due tendenze involontarie: democrazia senza diritti e diritti senza democrazia.
In secondo luogo, la differenza radicale tra il populismo politicamente passionale e accattivante di Laclau e Mouffe e il neopopulismo mediatico delle nostre società digitalizzate, dove l'idea di popolo non si costruisce, ma rimane decostruita e destrutturata in una massa di individui isolati. e ridotto a mero pubblico, nonostante l'illusione di acquisire notorietà attraverso la rete. Come in una sorta di sindrome contemplativa barocca: Sono uno spettatore in questa scena, non un attore...
Pertanto, non è difficile intravedere il cosiddetto "populismo digitale" di questi tempi –con le sue strategie di discredito e il suo uso non convenzionale di notizie false, con i suoi stati di eccezione “formattati”, sapientemente costruiti secondo un “occasionismo” lontano anni luce dalla grande e tragica politica del Novecento – rovescio della scomposizione neoliberista del legame comunitario.
Qual è allora il destino delle poliarchie democratiche? Per tentare una rigenerazione della democrazia c'è un solo modo: abbandonare definitivamente il lessico della legittimazione/delegittimazione per lavorare a una riattivazione della questione dell'autorità.
Ma questa riattivazione deve coincidere con una ridefinizione radicale del concetto. Nell'attuale situazione di interregno, segnata da un potere senza autorità e da un'autorità senza potere, è necessario liberare l'idea di autorità dal suo ancoraggio nel archè, nel Principe-Principato, trasformandolo in a autorità inteso, secondo la sua etimologia, come a aumentareet aumentare, crescita ed energia simbolica, che procede, autonomamente, dalla dinamica delle relazioni cooperativo-conflittuali del corpo politico. Si tratta, in altre parole, di riconsiderare l'elemento machiavellico di una repubblica generativa, libera e coesa, capace di costituire un orizzonte di senso per l'agire individuale e collettivo.
Ma, se spostiamo ora il centro dell'attenzione sul legame tra filosofia, politica e storia, diventa necessario pensare a un processo di costituzione delle soggettività capace di compiere - con l'ausilio dell'importante distinzione introdotta da Aleida Assmann - un congiunzione tra due diverse dimensioni della memoria:
a) la funzione della memoria, con il suo duplice carattere: selettivo, che trasmette i valori fondanti dell'identità, e costruttivo di un orizzonte di senso comunitario;
b) l'archivio-memoria, che conserva il non funzionale, l'escluso, il "superato" e, con esso, anche "il repertorio delle occasioni mancate", le alternative della storia individuale e collettiva lasciate da parte e sconfitte, o le possibilità non realizzate, che sono state “inghiottite” e rimangono in uno stato di latenza.
In una tale visione stratigrafica del tempo storico, è urgente anche ripensare il tempo della politica e quello dei suoi spazi di azione, al di là della classica antitesi tra linea e cerchio, ciclo e freccia del tempo. E, da lì, sviluppare una contro-strategia che possa farlo fermare e invertire una deriva della democrazia oggi sempre più segnata dalla sindrome populista.
Questo è un estratto da 'Sulla sindrome populista: la delegittimazione come strategia politica' (Gedisa), di Giacomo Marramao.