'Nine Perfect Strangers', la fiction e la nostra (fragile) identità

Nove persone, nel crepitare dei loro traumi e dei loro duelli, decidono di rompere con la loro solita vita: si recano in un luogo isolato, lontano da quasi ogni comunicazione, alla ricerca di se stesse, inseguendo i loro fantasmi. Ma la promessa della terapia viene presto infranta dall'uso di droghe, dai conflitti che nascono nella piccola comunità e da un dolore che, lungi dal finire, sembra rafforzarsi. Dalla prima lo scorso anno di Nove perfetti sconosciutila serie – tratta dall'omonimo libro della scrittrice australiana Liane Moriarty – con Nicole Kidman, Luke Evans e Melissa McCarthy è stata un successo strepitoso, superando la difficile sfida di corteggiare il seriofili e la critica cinematografica, divenendo uno dei fenomeni di quegli anni incerti.

L'era digitale disegna un orizzonte in cui identità e finzione sembrano svanire

Nove perfetti sconosciutiforse a causa di cioccolato della pandemia che stiamo ancora vivendo, ha catturato l'attenzione di uno spettatore in cerca di fuga e comprensione; uno spettatore desideroso di dialogare su ciò che sta accadendo. La serie ci parla, appunto, delle luci e delle ombre della disconnessione con il mondo esterno, così come dei limiti della nostra stessa identità. La paura, la fragilità, l'angoscia e il trauma sono parte integrante di noi stessi? Rimangono accidentali o trascendono l'essenza? Boccaccio ha scritto Decameron durante una delle epidemie europee della peste nera del XIV secolo per informarsi su queste due questioni: 10 persone, dopo un incontro in una chiesa, decidono allontanarsi dalla civiltà finché non passa il disastro. La differenza tra il libro dell'autore australiano, la serie televisiva e l'opera dell'umanista italiano è che se nella prima vengono gli stranieri in cerca di riabilitazione – per perseguire direttamente i propri traumi –, nella Decameron la narrazione e l'immaginazione sono usate per scongiurare il leviatano che affligge il mondo conosciuto.

Oggi l'era digitale disegna un orizzonte in cui identità e finzione sembrano svanire. In sviluppo è il metaverso della società di Mark Zuckerberg, che intende dare inizio a un'era in cui il reale, in termini di esteriorità, si manifesti più nella nostra mente che a contatto con i nostri sensi. È anche immerso nello sviluppo di impianti cerebrali che, come ha avvertito lo storico israeliano Yuval Noah Harari Sapiens, avvicinerebbe l'esistenza del cyborg di quanto la maggior parte della gente pensi.

Non è nemmeno necessario andare avanti di qualche decennio per intravedere il futuro che i vari governi e aziende tecnologiche stanno disegnando per l'umanità: basta osservare i comportamenti che manifestiamo in Internet e confrontare i modi e le atteggiamenti che abbiamo nella vita reale (o, se preferisci, fisico); infatti, ci comportiamo in modo diverso quando interagiamo con gli altri attraverso le piattaforme digitali: il sentimento di impunità, la cultura del narcisismo e della dipendenza che invocano i meccanismi con cui sono state costruite le diverse app e i social network – che cercano l'approvazione o la disapprovazione permanente tra gli utenti – incoraggiare fortemente comportamenti esibizionistici, molestie e persino violenza contro gli altri; una classe di aggressioni che, nella vita reale, probabilmente non avverrebbero così facilmente.

Le veloci agorà digitali ci indirizzano verso una spirale di piacere e confronto mantenuto in emozioni continuamente capitalizzate

E se l'azienda ha già promosso Viscerità contro razionalità promuovere il consumismo – basato essenzialmente sull'impulso – nelle frenetiche agorà digitali ci indirizza verso una spirale di piacere e confronto che è mantenuta da emozioni continuamente capitalizzate, come un ritiro da una realtà calda, ruvida, voluttuosa e mutevole che, d'altra parte , non possiamo quasi mai modellare alla nostra mercé. Nei social network, cerchiamo di creare una finzione: un universo in cui tutte le barriere della realtà vengono abbattute, potendo diventare quasi tutto ciò che vogliamo. Lì costruiamo un pubblico e facciamo terapia di gruppo raccontando i nostri dolori e le nostre esperienze, cercando di sentirci meno impotenti quando la solitudine – se arriva – prevale. Qualcosa come la droga dentro Nove perfetti sconosciutima senza dare l'impressione di preoccuparsi troppo di rimpinzarsi di continue overdose di consumo digitale.

La domanda non è se le nuove tecnologie siano buone o cattive, ma come li trattiamo; cioè come li usiamo. Allo stesso modo, e fintanto che non perdiamo di vista il mondo fisico, isolarci in una certa misura da questi elementi traumatici della realtà può servire a rigenerarci di fronte alle avversità. In questo utilizzo i social network potrebbero fungere da piccolo rifugio in un contesto, se non più conviviale, almeno più distante dai fantasmi che ogni persona alberga negli anni. C'è anche l'atteggiamento all'interno di questo ritiro: possiamo affrontare la realtà per riflessione o per viscerità. Mentre il Decameron invita a sognare senza dimenticare il dramma esterno, la clinica di Nove perfetti sconosciuti costruisce finzioni che affrontano o sottopongono i prigionieri ai loro drammi.

Come spesso accade, possiamo decidere, ma non sempre scegliere. Assumere le difficoltà o nasconderle? Correre o combattere? Immaginare o fingere? estranei o meno non ignorarci: il mondo, anche digitale, ha molto da offrire.

Go up