La bellezza di pensare a questo nostro tempo
Illustrazione
Carla Lucena
La bellezza è sottovalutata. O, almeno, è in questo senso antico inaugurato dai Greci dove il bello acquista, quasi primariamente, una connotazione morale (sebbene a volte anche terribile). Forse per questo parlare della bellezza del pensiero non è una novità, anzi, per quanto possa sembrarci ora sorprendente, è uno dei temi più genuini della nostra tradizione filosofica. La bellezza antica e tragica di questa Grecia era strettamente legata a ciò a cui aspiriamo ogni volta, animati da chissà quale spirito, osiamo pensare. Chi pensa ama, e chi ama – qui nessuno può stupirsi – segue la scia di una certa forma di bellezza.
Ad essere onesti, i greci non hanno mai parlato di bellezza. In una risorsa linguistica molto vicina a ciò che si potrebbe fare in spagnolo, hanno scelto di parlare di “quella bella”, usando la forma neutra dell'aggettivo. Il termine che usavano era al kalon, un concetto dagli innegabili connotati morali simili a quelli che oggi attribuiremmo alle cose nobili. Questa parola è stata tradotta in latino come bella a, poi, dare origine all'aggettivo bellum, che è esplicitamente legato alla nostra bellezza. Ricorda che c'è stato un tempo in cui il bello, il buono e il vero erano uno, assicurando così una prossimità tra le categorie estetiche, morali ed epistemiche. Basta uno sguardo al mondo per verificare che qualcosa sembra essere andato perduto e, ammetto, inoltre, di provare poca empatia per chi lo celebra.
Molte cose si possono dire sulla bellezza e sul pensiero, ma nessuna è così evocativa come quella che leggiamo da venticinque secoli Platone nel suo Servizio da tè : “Chi pensa magnificamente è una persona bella ed eccellente. Chi ha detto che non era un santo, non un nerd, nemmeno un poeta. Chiunque sostenesse questa affermazione è una delle intelligenze più straordinarie dell'umanità, e faremmo bene a rispettare questa intuizione. Sospetto, infatti, che tutta la nostra tradizione filosofica rientri in questa frase e che la bellezza del dire e del pensare (in greco sono indistinguibili) abbia ispirato quasi tutto ciò che abbiamo potuto concepire di valore da allora. Non è poco.
Per alcuni, queste osservazioni saranno eccessivamente ambiziose in un momento come il nostro, dove la bellezza, nella sua condizione estetica e nell'aspetto, è limitata alla cultura dell'immagine. Per questo pochi gesti oggi sarebbero più rivoluzionari che invocare la bellezza del pensiero che gli antichi continuano a ricordarci. Estendendo questa influenza, non solo ci sarebbe qualcosa di assolutamente bello nell'atto di pensare, ma ogni volta che discutiamo, riflettiamo, chiediamo o parliamo, lo facciamo trasformati, in senso letterale, dall'annuncio di una forma di bellezza.
Lo sosteneva un illustre neoplatonico come Lorenzo de' Medici, come amava ricordargli Ortega l'amore non è altro che un appetito per la bellezza. Ed è probabile che, se esaminiamo onestamente l'affermazione, lo statista fiorentino avesse ragione. Agostino di Ippona direbbe addirittura che la missione dell'artista - e quella del filosofo non sarebbe lontana - non è altro che cercare e raccogliere le vestigia della bellezza in un mondo dove il bello, per sua stessa natura, è fondamentalmente assente. La realtà vicina e immediata non è mai abbastanza, e quindi ogni volta che pensiamo di intraprendere una ricerca di qualcosa che non esiste e di cui, però, non possiamo fare a meno.
“Chi pensa ama, e chi ama insegue la scia di una forma di bellezza”
È impossibile pensare senza coraggio, e saremmo tutti d'accordo che non siamo mai più coraggiosi di quando ci innamoriamo. Ho pietà di chi non ha voluto abbandonare tutto in un rapimento d'amore, perché in ogni cosa ci sono naturalmente anche le nostre certezze. Un pensiero che si meriti un tale nome richiede sempre una dose di audacia e incoscienza, ed è per questo che abbondano le metafore che legano conoscenza, tentazione e rischio. Dalla Genesi ad oggi. Kant, che ha rilevato il saper ascoltare di Orazio, proposto di abbandonare i "camminatori", e Hannah Arendt ha sottolineato la necessità di pensare senza appoggi in una scommessa che, anche inconsapevolmente, ci ricordasse le parole di Platone. Ci sono pochissime cose su cui tutte le grandi menti della filosofia sarebbero d'accordo, ma penso che la vicinanza tra bellezza, coraggio e l'atto stesso di pensare sarebbe una cosa sola.
Non abbiamo bisogno di rifugiarci nel mondo antico per ricostruire la traccia della verità e della bellezza. In una tardiva intervista, poco prima della sua morte, Michel Foucault riuscì a battezzare la scrittura filosofica come un bel pericolo –il bel pericolo–, riunire in amore due dei più irrinunciabili poli di attrazione per la natura umano. La bellezza ha qualcosa di speranza e di minaccia, e non lontano da questa intuizione si riconoscono ancora diverse generazioni di pensatori.
R) Sì, Remedios Zafra parla oggi in termini molto simili, che sottolinea che “nel gesto di scrivere, parlare e condividere c'è una bellezza che va oltre quella del pensare, intendo – dice – la bellezza di creare contagio e pensiero collettivo. Lì si assume un rischio, quello di intralciare una comunità abituata o rassegnata”. Abitudine e conformismo sono le solite coordinate del già noto, quindi osare pensare richiederà sempre di mettere piede al di fuori di ciò che è immediatamente prevedibile. In un mondo attraversato dalle camere dell'eco e dai pregiudizi cognitivi imposti dai social network, l'imperativo nietzscheano il che ci ricorda che la missione del pensatore è soprattutto quella di essere intempestivo. Pensare contro il tempo o controcorrente è uno degli slogan più seducenti e allo stesso tempo più complessi della filosofia.
Remedios Zafra: “Il rischio vive sempre dove c'è un pensiero che mette in discussione ciò che ci viene dato come immobile”
Zafra avverte che "il pensiero impegnato a trasformare il mondo è inquietante a prima vista". Tuttavia, dietro le sue parole c'è una silenziosa speranza che il mondo dopo questa trasformazione sarà più bello.migliore e più bella di quell'altra che prima si pensava. Così, dirà il saggista, “il rischio abita sempre dove c'è un pensiero che interroga ciò che ci viene dato come qualcosa di immutabile”.
Questa intuizione sarà ripresa da Elizabeth Duval, per la quale la bellezza non è solo una condizione o un'illusione a cui pensare, ma l'oggetto stesso che viene messo in pericolo ogni volta che osiamo sfidare le nostre certezze: "Suppongo sia a causa qualcosa di simile quindi un artista o un pensatore deve essere al passo con i tempi, che non è esattamente la stessa sensazione del sentimento legato al mondo di qualche secolo fa o al mondo che verrà più tardi. Semplicemente non condivide lo stesso orizzonte di aspettative; quindi, non condividendo questo orizzonte, la sua definizione di bellezza (e quanto sono buoni o belli i suoi stessi pensieri) è in pericolo e vulnerabile ogni volta che entra in conflitto con quella degli altrie soprattutto a ciò che prevale in un dato momento o in una società concreta”.
L'eroe, il martire o il filosofo – l'eroina, il martire, il filosofo – condividono la stessa vocazione alla trascendenza assumendo un pericolo che può essere anche mortale. In effetti, sarai d'accordo con me, c'è una bellezza intrinseca in ogni fallimento. Il pugile sconfitto, l'angelo caduto o il combattente scoraggiato sono immagini che testimoniano l'irrinunciabile bellezza del tentativo fallito. Ma smettiamola di avere paura, perché da Socrate sappiamo che i veri pensatori non devono temere la morte: dall'altra parte della vita, se dobbiamo credere al nonno di tutti i filosofi, belle verità potrebbero finalmente aspettarci.
C'è qualcosa di più importante di ognuno di noi, e forse per questo Kierkegaard ci ha ricordato che una causa per cui morire è, in senso stretto, l'unica e vera causa per cui varrebbe la pena vivere. L'espressione "valido" non è certo casuale, e sebbene il danese non l'abbia formulata in questi termini, lo ha fatto Albert Camus, qualche tempo dopo. Parlare della vita come valore è come riconoscerne la condizione dolorosa e sofferente della nostra esistenza possa acquistare, si spera col pensiero, un valore che ripari il danno.
Dove e come pensare le condizioni contemporanee del pensiero sono domande a cui non è facile rispondere, perché ora, forse più che mai, la riflessione e il dialogo sembrano non avere posto. La questione materiale del pensare e del dire non è mai stata banale: gli scrittori classici hanno anche esaminato il ritmo, il tono e il modo in cui venivano dette le verità antiche. Allo stesso modo, le attuali forme di riflessione e comunicazione diventerebbero incomprensibili senza prestare attenzione alle radici materiali e performative dei nuovi media digitali. Così la descrive Alex Saum, professore all'Università di Berkeley, che trova in questi processi una forma di “bellezza non umana”. "L'oggetto digitale è un tutt'uno con un corpo molto materiale, composto da elementi fisici che occupano un posto specifico nel mondo, la cui esperienza, però, non si riferisce a questo corpo ma alla sua performance in altri corpi su cui sembra si materializzano magicamente”, avverte. In questo senso, l'evento fisico e tecnologico che ospita un processo informatico può riprodurne le conseguenze praticamente ovunque.
“Una delle cose più ridicole del nostro tempo è l'entusiasmo con cui ci viene chiesto di riflettere su noi stessi e di pensare al presente”
Questa ricollocazione del pensiero ci restituisce una concezione estremamente feconda, tipica anche del mondo antico. In greco, la parola atopos serviva a nominare, in termini letterali, ciò che non ha luogo, ciò che è al di fuori dello spazio, ciò che è impossibile incardinare. Ma l'atopico era anche il meraviglioso, l'assolutamente eccezionale e, allo stesso tempo, il folle o l'assurdo. Tutte queste caratteristiche, forse anche per la loro contraddizione, sono perfettamente collegabili con il modo in cui viene esercitato e il pensiero declina in un mondo contemporaneo in cui gli ambienti digitali ci offrono un'insolita inflazione di opinioni.
In qualsiasi luogo, sempre e su qualsiasi argomento, si può trovare un'opinione dominante o contestata, ma sempre soggetta al vaglio di innumerevoli osservatori. La tentazione della nostra generazione è senza dubbio il narcisismo. Pochi periodi della storia possono essere stati autoreferenziali come quello attuale. Ovunque guardi, tutto è annunciato come imminente, dirompente o nuovo. Ogni cambiamento aspira a diventare una rivoluzione e in ogni gesto aspiriamo non solo ad essere i primi ma, peggio ancora, ad essere insostituibili. Una delle cose più ridicole del nostro tempo è il desiderio autofagico in cui, con puntuale insistenza, siamo invitati a riflettere su noi stessi, sottolineando non la convenienza, ma l'urgenza di “pensare il presente”. Noi, sempre noi.
È probabile che, dopotutto, non siamo così nuovi, o così degni, o così importanti a cui pensare. Una delle strategie di pensiero più classiche suggerisce la necessità di uscire da se stessi per acquisire una lucidità diversa e maggiore di quella che ci relega nella versione peggiore di noi stessi. Tale era la sfida di Ulisse, e tale era anche il desiderio di Socrate e quello di chiunque si sia esposto al bello e salutare rischio di perdersi. Perdersi, ovviamente, nel forzato cambio di scenario che ci viene imposto dalla messa in discussione delle nostre più intime certezze. Ma perdersi, soprattutto, nella bella e coraggiosa speranza di vincere qualcosa di diverso e, si spera, migliore di noi.